Saturday, October 12, 2019

Fury 2014 Pdf Italiano

Fury 2014 Pdf Italiano


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Fury 2014 Guerra, Dramma, Azione Pdf Italiano


dirittoFury
licenziamento29-6-2014
categorialeGuerra, Dramma, Azione
durata179 verbalizzare
linguaEnglish, Italia


Fury 2014 Pdf Italiano



direttore : Palban
scrivere : JULIUS JOSE CHRISTOFAN
operatore di ripresa : Tifany
tiro stabilire : Brad Pitt, Shia LaBeouf, Logan Lerman, Michael Peña, Jon Bernthal, Jim Parrack, Brad William Henke, Kevin Vance, Xavier Samuel, Jason Isaacs ,Emberlee, Ambar
impresa : Huayi Brothers Media, Columbia Pictures, QED International, LStar Capital, Le Grisbi Productions, Crave Films, Sony Pictures, Madras Talkies

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Il fallimento del distributore originario (Moviemax) ha portato in sala in un periodo non particolarmente felice questo solido film di guerra malgrado la presenza di una stella di prima grandezza come Brad Pitt. Scritto e diretto dallo sceneggiatore David Ayer, che dietro alla macchina da presa c’è stato solo una manciata di volte, rivolge alla guerra uno sguardo manicheo di chiara impronta yankee, ma mette bene in chiaro che il mestiere di uccidere – i personaggi si riferiscono sempre al combattimento come a un lavoro - è sporco e cattivo (ma qualcuno lo deve pur fare). In merito, le carte sono già in tavola dalla prima scena, una delle più belle dell’intera pellicola, dove un ufficiale tedesco attraversa un desolato campo di battaglia su di un cavallo bianco finchè un soldato americano salta fuori da un tank e lo uccide con il coltello. Scopriamo così che il sergente ‘Wardaddy’ Collier (Pitt) e il suo equipaggio sono gli unici scampati allo scontro che non abbiamo visto e ha lasciato innumerevoli cadaveri sul terreno coperto di fango. La mota, l’umidità e il cielo cupo sono una costante di un film in cui non brilla un raggio di sole: la fotografia di Roman Vasyanov riprende un mondo grigio e dai riflessi metallici che è in sintonia assai di più con l’animo dei personaggi che con la primavera incombente. L’azione si svolge infatti nelle ultime settimane di guerra già in territorio tedesco (anche se le riprese sono state fatte in Inghilterra) quando la Germania è sì vinta, ma non ha ancora smesso di resistere: sostituito un mitragliere defunto con l’imberbe Norman (Logan Lerman), il carro di Wardaddy continua a combattere fino ad arrivare all’ultima missione. Nel frattempo, il sergente si trova ‘classicamente’ costretto a svezzare il pivellino con le cattive, quando lo costringe a uccidere un prigioniero, e con le buone come nella lunga parentesi nella casa abitata da due donne tedesche. E’ quest’ultimo una sorta di intermezzo di immaginata tranquillità – brutalmente interrotta dall’irruzione del resto dell’equipaggio – che si trova quasi a metà della storia e ne collega due parti di qualità disuguale sottolineando allo stesso tempo la struttura quasi teatrale della prima. Il film, infatti, si svolge per lunghi tratti in spazi ristretti - a partire dal più ristretto di tutti, ovvero l’interno del carro armato - e, fino alla battaglia finale, si occupa soprattutto di interazioni fra i caratteri dei diversi personaggi separate da brevi quadri di collegamento. In questi segmenti, i dialoghi si mantengono opportunamente asciutti e la durezza della vita militare, specie in un territorio ostile, ne esce descritta con notevole efficacia. Il salto tra questo modo di raccontare e quello utilizzato per l’ultima missione lascia perciò meravigliati e non in positivo: se la scena dello scontro con il Panzer, per quanto forzata, è comunque girata con i tempi giusti e non stride troppo, la lunga (troppo) sequenza finale sembra incastrata a forza sul resto della vicenda. In pratica, si tratta di una variazione sull’indimenticabile parte conclusiva de ‘Il mucchio selvaggio’: Wardaddy e soci, inchiodati nello Sherman ormai immobile, fanno fronte a un numero imprecisato di nemici che assaltano (assai poco razionalmente) all’arma bianca cadendo come mosche: i tedeschi, come gli indiani e i messicani, sono spersonalizzati e cattivi, oltre che un pochino tonti. Con ogni probabilità a Peckinpah sarebbero piaciuti la coreografia e il montaggio delle scene (Jay Cassidy e Dodi Dorn), ma la retorica a stelle e strisce torna a far capolino in modo fastidioso con le immancabili citazioni bibliche e chissà se vorrà dire qualcosa che a dare un’accelerata alla faccenda sia un cecchino (aka sniper, il film negli Stati Uniti è uscito prima di quello di Eastwood). Sicuramente, si sente la nostalgia per il tono molto più basso di una prima ora occupata soprattutto dalla descrizione della brutalità che può esprimere l’essere umano in guerra: a rendere al meglio tale descrizione contribuisce la buona prova d’insieme degli attori e chissà quanto ha influito l’addestramento pre-riprese. Pitt si mantiene sotto le righe nel disegnare Wardaddy, facendo anche dimenticare che ha almeno vent’anni di troppo per il ruolo, mentre Lerman sa rendere la perdita dell’innocenza di Norman anche se in ‘Noi siamo infinito’ mi era piaciuto di più. Accanto a loro sul tank ci sono il pio Boyd di un poco riconoscibile LaBeouf, il rude Grady interpretato da Bernthal e il Gordo con cui Michael Peña garantisce la quota multiculturale: il loro è un bel lavoro di squadra, proprio come quello dell’equipaggio e questo è certo uno dei pregi del lavoro di Ayer. Anche considerando gli imperdonabili traccianti che trasformano fucili e cannoni in armi laser danneggiando in parte le belle sequenze di battaglia, i pregi di ‘Fury’ finiscono così per prevalere sui difetti in due ore di intrattenimento di discreto livello che si concludono con una bella raccolta di immagini d’epoca sui titoli di coda.
A partire dagli anni Ottanta, Hollywood ha smesso di rappresentare la Seconda Guerra Mondiale in maniera asettica, precipitando il conflitto nell'orrore e mettendolo in scena come uno spettacolo dell'orrore. Per prendere la misura di questa evoluzione basti confrontare Il grande uno rosso di Samuel Fuller con Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg. Se Fuller temperava la violenza convinto che fosse semplicemente impossibile restituire sullo schermo la realtà del combattimento, Spielberg abbandona cadaveri sviscerati sulle spiagge della Normandia e traduce l'intensità di quella violenza. L'autore rivendica una volontà di realismo e traspone visualmente l'incubo della guerra, ricreando sulla spiaggia 'traslocata' di Omaha Beach quello che i veterani avevano visto e vissuto.
Fury, film bellico di David Ayer, prosegue l'estetica del soldato Ryan e si ritaglia un posto nel genere. Non tanto e non solo perché il suo regista, ex marine, ha esperienza diretta della materia, ma per l'impianto drammaturgico singolare, articolato in un interno (il carro) e in una relazione corpo-macchina. In Fury, come Lebanon, film israeliano di Samuel Maoz, non si scende (quasi) mai dal carro armato. Costruito sulla dialettica dentro-fuori, fuori c'è la Storia, dentro la storia, fuori l'azione, dentro la reazione, fuori il proiettile esploso, dentro il rinculo, Fury avanza interrogandosi sulla guerra e sul rapporto che il singolo soldato intrattiene con l'oscenità del conflitto. E qui si esauriscono le corrispondenze tra due film che contemplano esterni e implicazioni ideologiche radicalmente differenti. Se il fuori di Maoz era la Guerra del Libano (1982) 'costretta' in un tank-nazione e invasore, il fuori di Ayer è la Seconda Guerra Mondiale, l'ultima a dimensione mitologica, quella della lotta tra bene e male, che non smette di affascinare Hollywood.
Pur insistendo sulla necessità del vedere, Ayer non sembra ossessionato dalla materialità del combattimento, a interessarlo è l'unità protagonista. Comprendere il funzionamento di un'unità di carristi permette al regista di misurare la dimensione industriale della guerra. Nel 1945 la vita media di un uomo in un tank era di sei settimane, al termine delle quali si moriva straziati dal fuoco nemico, al termine delle quali, ancora, proprio come farà la recluta di Logan Lerman, era necessario ripulire il carro dal sangue, la carne, i brandelli e i frammenti di vita, prima di riempirlo di nuovo con altre vite. Uomini e biografie stipate e lanciate contro le linee tedesche, che resistevano ostinate e fameliche fino alla fine dei loro giorni.
Tra il superbo orizzonte del principio e il tank carico di morte, che l'ascensione della camera trasforma nell'epilogo in un occhio ciclopico ficcato in un crocevia disseminato di morti, si muove un film che conquista terreno al genere bellico e un carro che è rifugio, cuore e tomba di soldati condannati al martirio. A guidare la riflessione di Ayer sullo stato di guerra, sullo stato di tutte le guerre, c'è il sergente di Brad Pitt, massiccio, laconico e (in)gloriosamente bastardo dentro un cingolato, dietro alle cicatrici e il taglio barocco pettinato con rigore marziale e brillantina grassa.

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